Era il 16
febbraio. Pioveva, e la giornata si prospettava fredda. Non la mia.
Era il 16
febbraio, ed io partivo. Partivo per un viaggio dal quale non sapevo cosa
aspettarmi, partivo per un'avventura che a me sembrava tanto lontana da non
riuscire ad interpretarla.
Era il 16
febbraio, ed io mi dicevo: “è un viaggio come tanti, sarà splendido, ma
comunque un viaggio come tanti”.
Ripensandoci col
senno di poi, diamine come mi sbagliavo.
Era il 16
febbraio, ed io salivo su un autobus. Il “gruppo O” partiva.
Era il 16
febbraio, e la mia settimana per la vita cominciava: mi stava portando a
Cracovia.
Sarò sincera, non
ci sono parole. Non esistono, semplicemente non esistono parole per descrivere
o anche solo definire quello che abbiamo vissuto. Quello che noi, noi abbiamo
vissuto, perché io, da sola, non ho vissuto nulla. E' stato tutto un
“facciamolo, e se va male siamo insieme”. E' stato tutto uno stare uniti contro
il peggio, un rimbalzare alla morte con la vita, un rimbalzare alla vita con la
vita, la vita di 800 persone, che su un treno dall'Italia hanno preso i loro
zaini e hanno seguito le orme di chi settant'anni fa su un treno dall'Italia
andava incontro alla morte.
Era il 16
febbraio, e sul treno ridevamo tutti. Eravamo così felici. Dio, se ci penso mi
viene da piangere per la malinconia. Non ho mai visto tante persone felici le
une vicine alle altre. Eravamo felici ed eccitati. Per una settimana via dalla
quotidianità, per una settimana di scoperta, per una settimana via dalla nostra
stretta Italia. I motivi erano tanti, ma posso assicurarvi che non uno su quel
treno non ha sorriso neppure una volta. Passavamo di cuccetta in cuccetta,
correvamo per i corridoi del treno ridendo, cantando, suonando, urlando. Io non
so bene come spiegarlo, ma, dio, abbiamo fatto di quel treno la culla della
nostra felicità.
Vorrei raccontare
di tutti. Di tutti quei ragazzi che bussavano ai vetri degli scompartimenti e
tentavano di capire di dove fossi, di tutti quelli che passavano correndo con
in mano una cassa e la musica nei loro occhi. Vorrei raccontarvi di tutte
quelle persone che mi hanno fatto ridere, che mi si presentavano o urlavano i
loro nomi e la loro città di provenienza. Dio, come vorrei raccontare di tutti,
di tutte quelle persone che per quella settimana avevano deciso di lasciare a
casa il peso delle maschere e di portarsi dietro solo quello della propria
identità. Un peso leggero se lo si sa tenere stretto.
Noi questo abbiamo
imparato. La nostra identità, noi abbiamo imparato a tenercela stretta.
Era il 19 febbraio
quando siamo passati sotto quella scritta.
“Cado” ho pensato,
“adesso cado e non mi rialza più nessuno, adesso cado e di nuovo sarò sola nel
rialzarmi”. Vorrei tornare a quel momento e cancellare quel pensiero dalla mia
testa, vorrei anzi che mi fossi guardata attorno ed avessi sorriso ai miei
compagni di viaggio, al mio gruppo O. Nessuno è mai caduto da solo, né sotto la
scritta né più avanti.
Ci guardavamo
tutti i piedi. Un macabro pensiero passava per la testa di tutti: “e se qui è
morto qualcuno?”. Alzavamo gli occhi da terra, e gli sguardi si incrociavano.
Alcuni piangevano, altri erano seri. Io non so bene come o perché, ma lì dentro
ci capivamo senza le parole.
Nessuno ha parlato
dentro ad Auschwitz. La nostra guida camminava frettolosamente, esalava nuvole
bianche nel freddo magico della parte brutta di quella bella Polonia.
Continuava a dirci dei numeri. Li ripeteva, aggiungeva cifre ad altre cifre,
storie su storie su storie su storie su altre storie. E io mi chiedevo se mai
sarebbero finite le storie. Ascoltavo ma non ascoltavo, mi guardavo attorno,
guardavo i muri, li toccavo, poi però ritraevo la mano, e avevo paura perché
qualcuno settant'anni prima forse aveva fatto lo stesso nel morire proprio in
quel punto, ed io stavo cancellando la sua ultima traccia. Camminavo leggera
sulla terra bagnata, avevo paura di rovinarla. Volevo cristallizzare quel
posto, volevo che chiunque avesse vissuto un attimo di paura lì dentro non
svanisse, volevo che il legno delle porte o il cemento delle scale ricordasse i
loro passi, le loro mani, non le mie.
Era il 19
febbraio, ed io mi sentivo un'intrusa in un mondo impossibile.
Poi di mondo
impossibile se n'è aperto un altro.
“Birkenau è un bel
posto”. L'ho pensato. Stavo camminando per una strada sterrata, uscendo da un
boschetto dove un tempo c'era una camera a gas e ho pensato questo. E' pieno di
alberi, sembra un parco. Se quello che è stato fatto non fosse stato fatto
forse oggi sarebbe un ritrovo per le famiglie, un ritrovo per le coppie
innamorate. Forse oggi non avremmo i brividi a camminare su quelle strade. E mi
veniva da piangere, perché pensavo a come può un uomo distruggere la bellezza
della natura, come può un uomo distruggere la bellezza dell'uomo. Ero
arrabbiata, sono arrabbiata, perché se cose del genere dovessero accadere di
nuovo perderei la speranza. Come le persone nelle camere a gas graffierei i
muri, e lascerei un segno su quei muri. Un segno ancora visibile dopo
settant'anni, giuro, giuro che lo farei. So che non so cosa voglia dire essere
in quella situazione, ma so che la speranza è tutto, e mi conosco, dopo questo
viaggio mi conosco, e so che se mi togliessero la speranza farei di tutto per
riprendermela.
Questo pensavo
sulle strade di Birkenau. Io speravo, sulle strade di Birkenau. E mi dicevo che
dovevo farlo, che dovevo sperare, perché se non avessi sperato dove un tempo
nessuno aveva potuto farlo avrei perso la mia occasione più grande. Mi sono
aggrappata ai rami tanto tetri quanto affascinanti di quegli alberi
scheletrici, e a questi ho legato le mie paure e la mia speranza e la mia
voglia di essere felice. La mia voglia di rendere felice.
Il 20 febbraio mi
sono seduta in cerchio con il gruppo O, il mio gruppo O.
Il 20 febbraio ho
pianto, ma non ero sola. Piangevamo in cinquanta, piangeva tutto il gruppo O.
Ci chiedevamo perché le cose che avevamo visto fossero esistite, e realizzavamo
che erano vere. Realizzavamo che i numeri non erano solo numeri ma vite, e che
le storie non erano solo storie ma persone. E piangevamo, e ci abbracciavamo, e
ci raccontavamo le nostre di storie, tendendo la mano gli uni agli altri
attraverso la fiducia che volevamo avere in noi e tra di noi.
“La rete di
sguardi che si è creata, quella mi porterò a casa”.
E' passata una
settimana da quella rete di sguardi. E domani saranno otto giorni, e in un
battito di ciglia mi ritroverò a dire “è stato un anno fa che io e il gruppo O
ci siamo seduti e ci siamo guardati”, o cinque, dieci, venti, trent'anni che ho
vissuto quella settimana, la mia settimana più bella. Ma non dimenticherò. Non
dimenticherò nulla di tutto quello che c'è stato, neanche il minimo dettaglio. Non
dimenticherò le vostre voci rotte dal pianto, o i vostri occhi pietrificati
dall'orrore della morte, dalla paura di quello che può fare la vita alla vita.
Io vi voglio bene.
E vi ringrazio per aver lasciato a casa le maschere il 16 febbraio e per aver
mostrato quell'identità tanto temuta il 20. E' stato bello vedervi, vedervi
davvero. E' stato bello potersi sentire capiti in una situazione tanto
incomprensibile.
Grazie per avermi
riassunto la vita in sette giorni.
#staydeina #rimbalziamoallavita
Gioia Esmeralda Soglia
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