Cerca nel blog

giovedì 16 aprile 2015

Una settimana per vivere una vita



Era il 16 febbraio. Pioveva, e la giornata si prospettava fredda. Non la mia.
Era il 16 febbraio, ed io partivo. Partivo per un viaggio dal quale non sapevo cosa aspettarmi, partivo per un'avventura che a me sembrava tanto lontana da non riuscire ad interpretarla.
Era il 16 febbraio, ed io mi dicevo: “è un viaggio come tanti, sarà splendido, ma comunque un viaggio come tanti”.
Ripensandoci col senno di poi, diamine come mi sbagliavo.
Era il 16 febbraio, ed io salivo su un autobus. Il “gruppo O” partiva.
Era il 16 febbraio, e la mia settimana per la vita cominciava: mi stava portando a Cracovia.
Sarò sincera, non ci sono parole. Non esistono, semplicemente non esistono parole per descrivere o anche solo definire quello che abbiamo vissuto. Quello che noi, noi abbiamo vissuto, perché io, da sola, non ho vissuto nulla. E' stato tutto un “facciamolo, e se va male siamo insieme”. E' stato tutto uno stare uniti contro il peggio, un rimbalzare alla morte con la vita, un rimbalzare alla vita con la vita, la vita di 800 persone, che su un treno dall'Italia hanno preso i loro zaini e hanno seguito le orme di chi settant'anni fa su un treno dall'Italia andava incontro alla morte.

Noi 800 abbiamo fatto una strada lunga, una strada impervia, e qualcuno cadeva, ma ci tenevamo per mano, e chi cadeva era aiutato a rialzarsi.
Era il 16 febbraio, e sul treno ridevamo tutti. Eravamo così felici. Dio, se ci penso mi viene da piangere per la malinconia. Non ho mai visto tante persone felici le une vicine alle altre. Eravamo felici ed eccitati. Per una settimana via dalla quotidianità, per una settimana di scoperta, per una settimana via dalla nostra stretta Italia. I motivi erano tanti, ma posso assicurarvi che non uno su quel treno non ha sorriso neppure una volta. Passavamo di cuccetta in cuccetta, correvamo per i corridoi del treno ridendo, cantando, suonando, urlando. Io non so bene come spiegarlo, ma, dio, abbiamo fatto di quel treno la culla della nostra felicità.
Vorrei raccontare di tutti. Di tutti quei ragazzi che bussavano ai vetri degli scompartimenti e tentavano di capire di dove fossi, di tutti quelli che passavano correndo con in mano una cassa e la musica nei loro occhi. Vorrei raccontarvi di tutte quelle persone che mi hanno fatto ridere, che mi si presentavano o urlavano i loro nomi e la loro città di provenienza. Dio, come vorrei raccontare di tutti, di tutte quelle persone che per quella settimana avevano deciso di lasciare a casa il peso delle maschere e di portarsi dietro solo quello della propria identità. Un peso leggero se lo si sa tenere stretto.
Noi questo abbiamo imparato. La nostra identità, noi abbiamo imparato a tenercela stretta.
Era il 19 febbraio quando siamo passati sotto quella scritta.
“Cado” ho pensato, “adesso cado e non mi rialza più nessuno, adesso cado e di nuovo sarò sola nel rialzarmi”. Vorrei tornare a quel momento e cancellare quel pensiero dalla mia testa, vorrei anzi che mi fossi guardata attorno ed avessi sorriso ai miei compagni di viaggio, al mio gruppo O. Nessuno è mai caduto da solo, né sotto la scritta né più avanti.
Ci guardavamo tutti i piedi. Un macabro pensiero passava per la testa di tutti: “e se qui è morto qualcuno?”. Alzavamo gli occhi da terra, e gli sguardi si incrociavano. Alcuni piangevano, altri erano seri. Io non so bene come o perché, ma lì dentro ci capivamo senza le parole.
Nessuno ha parlato dentro ad Auschwitz. La nostra guida camminava frettolosamente, esalava nuvole bianche nel freddo magico della parte brutta di quella bella Polonia. Continuava a dirci dei numeri. Li ripeteva, aggiungeva cifre ad altre cifre, storie su storie su storie su storie su altre storie. E io mi chiedevo se mai sarebbero finite le storie. Ascoltavo ma non ascoltavo, mi guardavo attorno, guardavo i muri, li toccavo, poi però ritraevo la mano, e avevo paura perché qualcuno settant'anni prima forse aveva fatto lo stesso nel morire proprio in quel punto, ed io stavo cancellando la sua ultima traccia. Camminavo leggera sulla terra bagnata, avevo paura di rovinarla. Volevo cristallizzare quel posto, volevo che chiunque avesse vissuto un attimo di paura lì dentro non svanisse, volevo che il legno delle porte o il cemento delle scale ricordasse i loro passi, le loro mani, non le mie.
Era il 19 febbraio, ed io mi sentivo un'intrusa in un mondo impossibile.
Poi di mondo impossibile se n'è aperto un altro.
“Birkenau è un bel posto”. L'ho pensato. Stavo camminando per una strada sterrata, uscendo da un boschetto dove un tempo c'era una camera a gas e ho pensato questo. E' pieno di alberi, sembra un parco. Se quello che è stato fatto non fosse stato fatto forse oggi sarebbe un ritrovo per le famiglie, un ritrovo per le coppie innamorate. Forse oggi non avremmo i brividi a camminare su quelle strade. E mi veniva da piangere, perché pensavo a come può un uomo distruggere la bellezza della natura, come può un uomo distruggere la bellezza dell'uomo. Ero arrabbiata, sono arrabbiata, perché se cose del genere dovessero accadere di nuovo perderei la speranza. Come le persone nelle camere a gas graffierei i muri, e lascerei un segno su quei muri. Un segno ancora visibile dopo settant'anni, giuro, giuro che lo farei. So che non so cosa voglia dire essere in quella situazione, ma so che la speranza è tutto, e mi conosco, dopo questo viaggio mi conosco, e so che se mi togliessero la speranza farei di tutto per riprendermela.
Questo pensavo sulle strade di Birkenau. Io speravo, sulle strade di Birkenau. E mi dicevo che dovevo farlo, che dovevo sperare, perché se non avessi sperato dove un tempo nessuno aveva potuto farlo avrei perso la mia occasione più grande. Mi sono aggrappata ai rami tanto tetri quanto affascinanti di quegli alberi scheletrici, e a questi ho legato le mie paure e la mia speranza e la mia voglia di essere felice. La mia voglia di rendere felice.
Il 20 febbraio mi sono seduta in cerchio con il gruppo O, il mio gruppo O.
Il 20 febbraio ho pianto, ma non ero sola. Piangevamo in cinquanta, piangeva tutto il gruppo O. Ci chiedevamo perché le cose che avevamo visto fossero esistite, e realizzavamo che erano vere. Realizzavamo che i numeri non erano solo numeri ma vite, e che le storie non erano solo storie ma persone. E piangevamo, e ci abbracciavamo, e ci raccontavamo le nostre di storie, tendendo la mano gli uni agli altri attraverso la fiducia che volevamo avere in noi e tra di noi.
“La rete di sguardi che si è creata, quella mi porterò a casa”.
E' passata una settimana da quella rete di sguardi. E domani saranno otto giorni, e in un battito di ciglia mi ritroverò a dire “è stato un anno fa che io e il gruppo O ci siamo seduti e ci siamo guardati”, o cinque, dieci, venti, trent'anni che ho vissuto quella settimana, la mia settimana più bella. Ma non dimenticherò. Non dimenticherò nulla di tutto quello che c'è stato, neanche il minimo dettaglio. Non dimenticherò le vostre voci rotte dal pianto, o i vostri occhi pietrificati dall'orrore della morte, dalla paura di quello che può fare la vita alla vita.
Io vi voglio bene. E vi ringrazio per aver lasciato a casa le maschere il 16 febbraio e per aver mostrato quell'identità tanto temuta il 20. E' stato bello vedervi, vedervi davvero. E' stato bello potersi sentire capiti in una situazione tanto incomprensibile.
Grazie per avermi riassunto la vita in sette giorni.


#staydeina ‪#rimbalziamoallavita



Gioia Esmeralda Soglia

Nessun commento:

Posta un commento